“La scommessa di Virgilio” – Maria Gabriella Pietrantoni
Il seguente articolo è la Relazione che la Prof.ssa Maria Gabriella Pietrantoni ha tenuto in uno degli incontri del seminario “Scommettere sull’utopia per vincere la realtà”, che ha caratterizzato il programma dell’anno sociale 2015/2016 del Punto CLE di Rende.
In questi ultimi anni è andato crescendo un diffuso sentimento di disaffezione per la politica non solo tra le generazioni più mature e disilluse, ma purtroppo, anche tra i giovani che storicamente hanno sempre alimentato con generosità i grandi ideali e li hanno trasformati in cambiamenti positivi. Appunto per questo, come filo conduttore che collega idealmente tutte le iniziative promosse dalla sezione di Rende del Cle, è stato scelto un tema ambizioso che suona quasi come una sfida: “Scommettere sull’utopia per vincere la realtà”.
In effetti da più parti si sentono voci autorevoli, come quelle di Luigi Zoja e Massimo Recalcati, che ci esortano a riscoprire un orizzonte di ideali, una rinnovata passione per la vita collettiva e individuale, come ultimo possibile antidoto al veleno dell’indifferenza o della rassegnazione. Si tratta di due psichiatri appassionati di antropologia e cultura classica che, in parte anche attraverso la rilettura dei miti, ci additano possibili strade per riscoprire il sano desiderio di credere in un cambiamento, di ereditare il nostro passato per farne il lievito di una rinascita individuale e sociale.
Entrambi, anche se per vie diverse, approdano alla convinzione che la crisi di valori della società moderna sia riconducibile all’appannamento della figura paterna, intesa non solo come punto di riferimento della famiglia, ma come depositaria di un patrimonio di esperienze, anche di errori, e soprattutto di norme, di principi ideali con i quali l’essere umano sperimenta il limite ai propri desideri, impara a relazionarsi con il mondo.
Recalcati, in “Ritratti del desiderio”, definisce il desiderio vitale, da non confondere con il godimento edonistico e autodistruttivo, come “avvertimento positivo di una mancanza che sospinge la ricerca, in un orizzonte di attesa e di veglia stellare”. E ci ricorda che nel De Bello Gallico di Giulio Cesare i “desiderantes” erano i soldati che aspettavano sotto le stelle l’arrivo dei compagni dalla battaglia; in effetti l’etimologia stessa della parola desiderio deriva dallo stare sotto le stelle in atteggiamento di attesa e di ricerca della via, l’attesa e la ricerca della propria stella.
Anche Zoja nel suo “Utopie minimaliste” rilancia l’idea che sia indispensabile inseguire un orizzonte di ideali senza cadere, però, negli eccessi nefasti e devastanti delle ideologie del novecento come il Nazismo e il Comunismo totalitario, ma senza rassegnarsi a vivere in una condizione di cinica rinuncia ai sogni.
“In una società senza utopie prevale il cinismo… ma anche l’accettazione diffusa di una serie di “violazioni” della morale, in ambito economico come personale, e peggio ancora, politico: la tolleranza verso certi comportamenti è spiegabile solo come frutto di una situazione post-ideologica, post-utopica.”
Zoja propone dunque una terza via, quella dell’Utopia minimalista, appunto, che cerchi di promuovere le qualità umane delle persone: la sincerità, l’onestà individuale, la concordia sociale, l’ordine interiore, che non accrescono il PIL di una Nazione ma sono altrettanto estranee ai miti eroici della grandi ideologie del novecento.
E a proposito di qualità umane, rivolgendo il nostro sguardo al mondo romano, per una riflessione sul messaggio positivo che esso, ancora oggi dopo oltre 2000 anni, può tra-smettere ai giovani cittadini del futuro, quasi obbligata appare la scelta di Virgilio, e non solo per il fatto che egli ha rilanciato i valori della pietas, della concordia e della pace operosa.
Non a caso Virgilio rappresentò agli occhi di Dante il modello supremo di Poeta e di Uomo, oltre che per le qualità universalmente riconosciute di artista, soprattutto per quell’impegno politico che egli alimentò nella coscienza imponendo a se stesso la scelta doverosa di farsi portatore di valori religiosi morali e civili. Per questo egli accantonò gradualmente l’innata vocazione per la poesia sentimentale, rinunciando alla fuga dal mondo, alla ricerca di una pace solitaria quanto sterile ed egoistica, e cominciò pazientemente a costruire un nuovo universo poetico che a noi lettori moderni risulta al tempo stesso ideale e reale, utopico ma anche possibile.
Prima di approfondire l’analisi sul messaggio di Virgilio vale la pena di ricordare velocemente che il concetto di Utopia comparve in realtà solo in epoca moderna nell’opera di Tommaso Moro De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia e successivamente si evolse fino ad assumere la connotazione di chimera, sogno irrealizzabile. Nel novecento esso è tornato ad avere un’accezione positiva, come proposta di società ideali fondate e sostenute da precise teorie socio-politiche. Secondo la definizione di Lamartine: “Le utopie spesso non sono altro che verità premature”.
Tuttavia, nel significato etimologico di “luogo inesistente” se non nell’immaginazione umana, il concetto è rintracciabile fin dall’antichità classica: utopica, in effetti, può già essere considerata la descrizione del giardino di Alcinoo contenuta nel libro settimo dell’Odissea. L’isola di Scherìa è un luogo magico, protetto dagli dèi, in cui regna la concordia serena e l’operosità dei sudditi risplende nei frutti rigogliosi di un giardino sempre verde.
Più tardi, Esiodo (VIII-VII sec. a.C.) ci offre la prima rievocazione della stirpe dell’oro, che visse durante il regno di Crono, prima dell’avvento di Zeus:
Gli dei immortali … fecero una stirpe aurea di uomini mortali, che vissero al tempo di Crono. Essi vivevano come numi, senza dolori, senza fatiche, senza pene. Non gravava su di loro la vecchiaia … si rallegravano in conviti in assenza di ogni male … avevano ogni sorta di beni: la terra fertile produceva spontaneamente frutti ricchi e copiosi. Benevoli e pacifici, abitavano nelle loro terre ricchi di greggi e amati dagli dei beati (Le opere e i giorni, 109 ss., trad. di G. Costa).
Platone nel Politico compendia il mito in due cicli che eternamente si avvicendano: uno ascendente governato da una forza divina, uno discendente abbandonato a se stesso. L’età dell’oro corrisponde al ciclo ascendente, guidato da Dio e da divinità minori che, come pastori, si prendevano cura degli uomini divisi in varie greggi. Egli dunque delinea un’età dell’oro in chiave pastorale, organizzata in forma di comunismo utopico, nella quale gli uomini vivono concordi, senza bisogno di lavorare, in piena armonia con gli dei e l’ambiente naturale. Il benessere materiale favorisce, in questo Paradiso terrestre, la possibilità di conversare e filosofare: «Gli alunni di Crono avevano possibilità, liberi da ogni occupazione, d’intrattenersi … per dedicarsi all’amore di sapienza».
Ci spostiamo in Italia, e scopriamo che negli Annali di Ennio il mito si romanizza. Crono è identificato con Saturno e l’età dell’oro diviene un periodo della storia italica. Alla leggenda si collega lo stesso nome di Lazio, fatto derivare da latēre: in questa terra si sarebbe nascosto (latuisset tutus) Saturno inseguito dalle armi di Giove.
Su una posizione totalmente diversa si colloca il poeta Lucrezio che ricostruisce nel V libro del De rerum natura i primordi dell’umanità senza alcuna idealizzazione dello stato di natura. Gli uomini primitivi non hanno origine divina, conducono un’esistenza ferina, irta di difficoltà, obbedendo a impulsi utilitaristici, vivono immersi nella solitudine di una natura tutt’altro che benigna dove non scorrono fiumi di latte e miele, ma vige la legge della selezione dei più forti. Tuttavia, come gli uomini dell’età aurea, sono esenti dalla brama insaziabile che avvelena i tempi moderni.
Con la natura instaurano un rapporto sobrio e armonico, vivono senza agricoltura in uno stato di innocenza originaria anteriore ai mali della società civilizzata, in una condizione di «smemorata felicità» su uno sfondo di selvaggia grandiosità e di severa bellezza:
Né v’era alcun guidatore del curvo aratro … Quello che il sole, quello che davano le piogge e che la terra creava da sé, spontaneo, quel dono bastava a renderli paghi.
Rifocillavano il corpo sotto le querce datrici di ghiande; quei corbezzoli che ora tu vedi tingersi di rosso e maturar nell’inverno li produceva la terra più numerosi e più grossi.[…]
Ma li invitavano a togliersi la sete i fiumi e le fonti come oggi a sé, da lontano, l’acqua che scende dall’alte montagne chiama col chiaro scroscio le belve assetate. (933 ss.).
Il mondo ingenuo degli uomini primitivi appare tuttavia troppo rude e violento perché Lucrezio possa vagheggiarlo o rimpiangerlo. Il pessimismo esistenziale che contraddistingue la poesia del De rerum natura sfocia inevitabilmente nella convinzione che nemmeno i nostri antenati, non contaminati dal progresso, ma oppressi dalla dura necessità della sopravvivenza, potessero essere mai stati felici.
Questo rapido excursus sull’idea arcaica di una felicità primitiva e perduta per sempre ci aiuta a comprendere come sia ben più complesso il cammino di ricerca del nostro Virgilio: egli giunge a elaborare un progetto di società pacifica e serena, che non sia solo un sogno, ma una realtà possibile, una vera e propria scommessa sulla vita.
Non voglio qui soffermarmi troppo sulla celeberrima quarta ecloga, per non ripetere ciò che ovviamente molti dei presenti sanno già: e cioè che dopo le tremende sanguinose guerre civili si era diffusa a Roma un’atmosfera di attesa, in cui confluivano svariati elementi filosofici e religiosi. È probabile che anche nei libri sibillini si facesse riferimento al ritorno di una età aurea, che avrebbe posto fine alla progressiva decadenza dei costumi per offrire all’umanità e al mondo una totale palingenesi. Il puer identificabile secondo alcuni studiosi con il figlio di Asinio Pollione, o di qualche altro personaggio influente del tempo, è in realtà il simbolo di un bisogno di rinnovamento, testimoniato dalla diffusione di dottrine pitagoriche e orfiche e di teorie messianiche di origine orientale (e si spiega così l’equivoco medievale di identificare il bambino d’oro con Gesù).
In realtà questo componimento nei suoi toni entusiastici e mitici rispecchia una visione ancora troppo idealizzata e astratta, rispetto al progetto sociopolitico augusteo di cui Virgilio si farà portavoce. I saturnia regna sono qui luoghi mitici, rievocazione di una purezza primitiva che ritornerà quando nuovamente cesseranno la navigazione e i commerci, fonte di pericoli e corruzione.
Del resto l’atmosfera complessiva delle Bucoliche è quella di un’Arcadia tanto desiderabile quanto irreale e diversa dalla regione del Peloponneso greco. L’abilità del poeta è tale da riuscire a combinare insieme eventi, oggetti, particolari della realtà per riprodurre un mondo possibile; tuttavia la vita dei pastori si svolge in un ambiente artificiale, nonostante la concretezza delle cose umili e quotidiane, l’esattezza dei dettagli e del lessico pastorale. Questi pastori poeti, infatti, credibili nella cornice scenica in cui vivono, appaiono a noi lettori moderni proiezioni di un mondo onirico, pastori da salotto, come li definì Nietzsche, distanti dai problemi di un mondo violento dal quale il giovane Virgilio sembra voler fuggire, piuttosto che provare a cambiarlo.
Ma per fortuna il poeta fu protagonista di un cammino di crescita umana e poetica, che lo portò gradualmente ad allontanarsi da tali inclinazioni solitarie di stampo epicureo. La sua aspirazione alla vita appartata e alla poesia come puro conforto al dolore cede gradualmente il passo alla riflessione sul rapporto conflittuale tra l’Arcadia e la Storia, con le sue insensate leggi delle armi e del potere.
Ed ecco che Virgilio nelle Georgiche matura una visione più adulta del mondo e delle responsabilità individuali, rilanciando il lavoro, come espressione nobile del primato dell’uomo sulle altre creature, e come strumento dell’evoluzione tecnologica ma anche sociopolitica. Il lavoro dei campi richiede impegno, fatica, ma soprattutto solidarietà umana, rispetto delle regole, adesione ad una vita in perfetta armonia con i cicli naturali del tempo e delle stagioni.
Tuttavia il progressivo avvicinamento del poeta allo stoicismo avviene in modo graduale e non privo di contraddizioni; il durus labor non è sempre premiato dalla generosità della terra, che anzi appare spesso avara e ingrata.
In un alternarsi di paesaggi sereni o sconvolti da eventi naturali, tra il duro lavoro dei campi e le gioie del meritato raccolto, si fa strada, a fatica, l’immagine del paziente agricoltore che non si arrende agli ostacoli del cammino e infine viene premiato. Finalmente, nel IV libro, il poeta ci propone, nell’immagine del vecchio giardiniere di Corico, capace di trasformare una terra arida e abbandonata in un orto che produce frutti abbondanti, una idea totalmente nuova: colui che lavora con pazienza e dedizione, nel rispetto della natura e degli dèi, gode una beatitudine tutta speciale: poter riempire la mensa di cibi non comprati, addirittura “regum aequabat opes animis”, eguagliare nell’animo le ricchezze dei re.
Il giardino della campagna tarantina appare una vera e propria rivisitazione del giardino di Alcinoo, con il dettaglio in più di una serena consapevolezza, da parte dell’uomo, che quella felicità e prosperità sono tanto più piene quanto più meritate. L’importante è rinunciare agli eccessi inutili, ai lussi della vita cittadina che porta con sé la delusione di chi è perennemente insoddisfatto, e rigettare soprattutto la violenza della guerra, che scaturisce dalla brama di potere e dal ripudio della giustizia divina.
Modello assoluto di questa scelta di vita è rappresentato, sempre nel quarto libro delle Georgiche, dalle api, che nella loro dedizione al labor (e nella rinuncia alle lusinghe dell’amore, passione distruttiva) incarnano il modello dell’agricoltore ideale e soprattutto di una società utopica quasi “comunista”. Per il senso di appartenenza alla comunità, l’obbedienza assoluta all’ape regina, e la rinuncia ad ogni tipo di ambizione personale, diventano figura di quella che sarà la cosiddetta utopia dell’Eneide: una Res publica dominata dal princeps Augusto, e una rinnovata coesione fra i cittadini pronti a sacrificare il benessere individuale per il destino immortale di Roma.
Nell’Eneide, infatti, accanto alla celebrazione di Roma nella famosa galleria dei romani nel VI libro, trova spazio l’idea di una religiosità obbediente, quella di Enea, per primo, l’eroe che mortifica se stesso nell’adempimento della missione provvidenziale di fondare l’Impero di Roma. E trova spazio la rappresentazione di un’Arcadia, reale questa volta: la passeggiata di Evandro ed Enea nella città di Pallanteo, nel libro VIII, 306 – 369; il vecchio re originario, non a caso, dell’Arcadia storica regione della Grecia, mostra all’eroe troiano il Lazio antico, popolato di ninfe e fauni, sede prescelta da Saturno per sfuggire al figlio Giove, e in cui egli instaurò l’età dell’oro offrendo agli uomini leggi e una pace tranquilla. Il tema dei Saturnia regna ritorna qui in una prospettiva più concreta: si intravede l’allusione ad Augusto, del quale Virgilio celebra con garbo e senza adulazione il merito di aver restaurato la pace e la giustizia. Ma il senso autentico dell’episodio si coglie nei versi finali in cui Evandro invita Enea a varcare la modesta soglia della sua reggia e a disprezzare le ricchezze. L’esplicito richiamo alla moderazione, al culto della semplicità e delle cose autentiche è il punto d’arrivo del cammino virgiliano alla ricerca del senso della vita. L’Arcadia non è più solo oasi e rifugio dalla violenza della storia, né solo ricerca solitaria di pace attraverso il durus labor, ma soprattutto culto di valori quali la modestia e la misura. Quando Evandro esorta Enea ad abbassarsi, ad entrare, come già fece Ercole, nell’umile dimora e a non disdegnare le povere cose, egli lancia un monito che suona come una utopica sfida lanciata al mondo intero: non l’Arcadia contrapposta alla storia, ma la Storia che acquisisce i tratti dell’Arcadia. Il principe troiano impara la lezione dell’umiltà e se ne fa maestro e modello presso il suo popolo e i suoi discendenti.
Naturalmente non può sfuggire a nessuno che il destino di Roma, in tutta la sua grandezza, si compie attraverso momenti di sofferenza individuale e collettiva che Virgilio non riesce ad accettare facilmente. I numerosi morti delle altrettanto numerose guerre sono spesso an-che vittime innocenti di un fato ineluttabile. I piccoli figli di Laocoonte, orrendamente divo-rati dai serpenti, i giovani caduti anzitempo come Eurialo e Niso, i morti rapiti dalle tempeste e dal destino, danno voce, con le loro storie, al numero sconfinato di uomini senza nome travolti dall’imperialismo feroce e spesso insensato che portò Roma alla sua espansione. Un secolo dopo Tacito farà dire al coraggioso capo britannico Calgaco, in un discorso di esortazione ai suoi uomini, che dovranno lottare fino alla morte, contro gli insaziabili dominatori, i quali “ubi solitudinem faciunt pacem appellant” , fanno il deserto e lo chiamano pace.
E certamente anche Virgilio, che odiava la guerra in tutte le sue manifestazioni, non nasconde, negli accenti dolenti con cui rievoca le tristi morti dei guerrieri, il senso di smarrimento dinanzi alle dure necessità della guerra. Ma con la forza della volontà egli si impone di credere che da Augusto in poi la guerra sarà solo un ricordo, e che essa sarà sopita per sempre se sarà possibile restaurare gli antichi mores, ritornare alla terra, alla famiglia, alla pietas e ritrovare lo stile semplice della vita dei romani antichi.
Che Virgilio fosse sincero e motivato a credere in questo sogno non abbiamo motivo di dubitare se è vero che Augusto riuscì, sia pure solo per il limitato periodo del suo principato, a ristabilire la concordia ordinum, a rilanciare l’arte e la letteratura, a rafforzare nei popoli la fiducia nelle istituzioni e nella grandezza di Roma, mascherando dietro la parven-za di una continuità istituzionale con la Res publica il potere accentrato e totalitario di un Principe che sommava in sé tutte le prerogative di potere e soprattutto la carica di comandante militare supremo, l’ Imperator.
La rinuncia consapevole ad una idea di stato repubblicano in favore di una costituzione monarchica, solo apparentemente rispettosa del Senato e delle antiche magistrature, può apparire a noi moderni una sconfitta ideale di Virgilio, ma in fondo non ci deve meravigliare più di tanto se è vero che, come ci ricordava nella sua conversazione di gennaio il Prof. Vincenzo Ferraro, anche Tucidide aveva espresso un giudizio positivo sulla figura di Pericle, evidenziando la necessità storica di un “protos anèr” a garantire gli equilibri e il buon funzionamento della democrazia ateniese.
A titolo di curiosità vorrei proporvi qualche passo di un testo in neo latino, un saggio composto in forma argomentativa, secondo il modello senecano delle suasorie, all’esame di maturità nel 1835 da un allievo illustre: Carl Marx; la consegna del saggio da svolgere in latino recita così:
Il principato di Augusto viene annoverato tra le epoche più felici dello stato romano: è giusto o no?
Il futuro filosofo confronta l’età di Augusto con il periodo precedente, caratterizzato dalle lotte tra patrizi e plebei, e con l’epoca seguente, quella di Nerone, dominata invece dalla corruzione. Tra queste tre età, quella di Augusto spicca per una caratteristica: la convinzione, da parte dei sudditi, di essere liberi, nonostante la presenza di un imperatore il cui potere, giusto e illuminato, si diffonde su tutta la gestione dello stato. La conclusione quindi è questa: in periodi particolarmente difficili, imperator potius quam libera res publica populo libertatem afferre valet. “… quando gli animi sono indeboliti ed è venuta meno la semplicità dei costumi, mentre è aumentata la grandezza dello stato, la libertà può essere garantita al popolo più da un imperatore che da una democrazia.” Naturalmente l’imperator era l’equilibrato Augusto, capace di non fare avvertire nemmeno la sua presenza ai sudditi, che credevano, sotto il suo dominio, di essere liberi.
“I Romani, sebbene fosse svanito ogni tipo di libertà ed anche ogni parvenza di libertà, ritenevano tuttavia di essere sovrani, e che il titolo di imperatore fosse soltanto un altro nome per le dignità che prima avevano posseduto i tribuni e i consoli, e non si rendevano conto che era stata loro sottratta la libertà.”
Questo asseriva il diciottenne Marx; se poi tutto ciò abbia avuto una conseguenza sul suo modo di pensare seguente, potrebbe essere materia di riflessione e dibattito in altra sede.
Ma la sua tesi avvalora il fatto che Augusto godette indiscutibilmente di grande consenso, e il giudizio complessivamente positivo di Virgilio su di lui nasceva dalla convinzione che egli realmente aveva le qualità umane e politiche necessarie a garantire il benessere dei cittadini. Queste qualità egli le sintetizza nel carattere bonario, clemente ma fermo e incorruttibile del Pater. E le raffigura poeticamente nell’immagine del Pater Aeneas, devoto verso gli dèi, premuroso verso il suo popolo, duro con se stesso e alieno da ogni ambizione personale di gloria o di potere. Questo eroe introverso, problematico, capace di sottrarsi alle lusinghe amorose della regina africana (proprio come Ottaviano respingerà la seduzione di Cleopatra), devoto alla memoria degli antenati e del proprio padre (come Ottaviano fu geloso custode dell’eredità di Giulio Cesare e fanatico restauratore della moralità antica, nonostante i grattacapi che gli procurarono le donne un po’ troppo vivaci della sua famiglia) porta in sé i tratti distintivi del buon padre di famiglia, guerriero per dovere più che per scelta, eroe per destino più che per vocazione.
Tuttavia questa visione “paternalistica” del princeps, che oggi potrebbe apparire anacronistica e antidemocratica, merita di essere recuperata in chiave attuale secondo quanto ci suggeriscono Recalcati e Zoja, i due studiosi con i quali abbiamo introdotto questa conversazione e ai quali vale la pena di ritornare per dare un senso concreto alla scommessa di Virgilio.
Recalcati afferma, nel suo saggio ”Il complesso di Telemaco”, che il figlio di Ulisse, restando in attesa del padre per ristabilire la legge sull’isola di Itaca, usurpata dai proci, possa suggerire un nuovo modo di essere figli, e quindi di essere uomini nell’epoca della morte del padre. Infatti l’assenza del padre impedisce all’individuo di crescere in un fisiologico confronto conflittuale con la Legge della parola, ossia nel superamento di una condizione di vita puramente biologica verso l’inserimento nella vita sociale, con le sue regole, i suoi limiti, sanciti appunto dal linguaggio. Credere nel ritorno del padre, ossia restaurare la figura paterna vuol dire ristabilire nella coscienza collettiva il senso del dovere, della responsabilità, e porre un limite ai desideri autodistruttivi, scacciando via i Proci dalla nostra vita.
Anche Zoja, nel suo saggio “Il gesto di Ettore, preistoria, storia attualità e scomparsa del padre” indaga sull’evoluzione storica della figura del padre come colui che prende coscienza delle proprie responsabilità verso i figli e trasmette loro il senso di appartenenza civile, la consapevolezza dei doveri, riversando in loro le più luminose speranze. Nelle parole di Ettore che saluta il piccolo Astianatte sollevandolo verso il cielo e augurandogli di diventare un giorno più forte di suo padre, Zoja coglie, attraverso l’altruismo di un Eroe padre che guarda al futuro di suo figlio senza invidia, una valenza generosa e addirittura rivoluzionaria: “la preghiera di Ettore ha travolto l’onnipotenza immobile del mito rendendo il bambino figlio, e il figlio speranza in qualcosa di migliore dei tempi mitici”.
E dunque anche il mito virgiliano di Enea – Augusto può diventare per noi oggi il simbolo di una scelta responsabile e non egoistica, l’immagine di una paternità esemplare, generosa e rigorosa al tempo stesso, il modello di una coscienza esistenziale ancorata al passato e proiettata nel futuro proprio come l’eroe troiano fu ultimo depositario della storia di Troia e germoglio del destino futuro di Roma.