GLI EVENTI METEOROLOGICI 

E LA LORO INFLUENZA SUI POETI

 

Classe 3B - Liceo Scientifico Statale “A.Einstein” di Cervignano del Friuli - 2001

Coordinamento: prof.ssa Loredana Marano

Premessa

Partendo dalla domanda: “Come si pone l’uomo di fronte alla natura, intesa come fenomeni meteorologici e variazioni climatiche?“ si è scelto di privilegiare l’aspetto più propriamente poetico e cioè le immagini, i miti, i sentimenti, le sensazioni, le paure, le aspettative, i valori che sempre, ieri come oggi, accompagnano la correlazione uomo-natura, sia essa paesaggio oppure condizioni atmosferiche.

 

D’altra parte, la tematica scelta permette, pure, di analizzare gli eventi meteorologici da più prospettive: può costituire un documento del livello di conoscenze scientifiche possedute dagli antichi; può suggerire un confronto ( differenze ed analogie) di tipo antropologico fra passato e presente; può offrire spunto per approfondimenti nell’ambito delle scienze naturali (ambiente, specie vegetali ed animali…).

 

Il percorso  si muove in tre direzioni:

1.      Lo studio dei fenomeni naturali nell’antichità.

      In particolare si sono lette ed analizzate le opere di tre autori latini: Lucrezio,

      Virgilio, Cesare, da cui sono stati estrapolati i passi più significativi in relazione alla

      tematica scelta

2.      La natura perfetta: modelli di vita

Nella cultura occidentale sono state elaborate le linee generali di due modelli di perfezione in cui l’uomo trova piena realizzazione e felicità nel suo rapporto/incontro con la natura: Il Mito dell’Età dell’Oro, Il Paradiso terrestre.

3.      La natura riflesso dei sentimenti dell’uomo

Si sono esaminati gli aspetti più poetici, cioè i sentimenti che la natura, nelle infinite sue manifestazioni, suscita nell’uomo, attraverso le opere di Orazio, Tibullo, dei Poeti provenzali e di Petrarca

 

Tema 1. Lo studio dei fenomeni naturali nell'antichità

A.     Lucrezio De reum natura, liber VI

B.     Virgilio   Georgiche, liber I

C.     Cesare    De bello gallico, libri I, VI, VII

 

"L’antichità greco-latina non concepì quasi mai la scienza come ricerca autonoma e autosufficiente, ma la vide semplicemente come un aspetto dell’indagine filosofica. Il mondo antico non possiede un vocabolo che indichi lo scienziato: conosce solo il filosofo. La ricerca scientifica doveva servire o a integrare una visione globale del mondo o, - come nel sistema di Epicureo e in quello stoico di Seneca-, lo studio della "fisica", cioè dei fenomeni naturali, era inteso come mezzo per liberare l’anima dalle passioni e consentirle di raggiungere la perfezione morale.

I Romani, poi, interessati alla gestione della “res” pubblica e a tutti i settori ad essa connessi, quali il diritto, la retorica, l’oratoria, le infrastrutture, non si preoccuparono di progredire nella scienza pura: le loro nozioni scientifiche sono per lo più derivate dal mondo greco e selezionate in base alle loro possibilità di applicazione pratica." ( Elio Pasoli: Storia della letteratura latina Laterza).

A)   Lucrezio  

Il "De rerum natura" è un poema didascalico, in 6 libri, di argomento filosofico-naturalistico, in esametri, in cui Lucrezio ( 94a.C.-50 a.C.) espone la dottrina epicurea, in particolare la fisica (dottrina epicurea dell’atomismo), affinché l’uomo, conoscendo la materialità del cosmo, si liberi dalla paura della morte e degli dei.

Alla base dell’opera si colloca la capacità conoscitiva, lo slancio di una conoscenza razionale della natura, la quale, sola, può dare la consapevole ed inoppugnabile accettazione di una condizione umana che cerca in sé il senso dell’esistenza e la capacità di far fronte ai propri timori.

Il libro VI l’autore analizza ed illustra i vari fenomeni del cielo e della terra, che non sono manifestazione dell’ira degli dei, sempre incombente sugli uomini, ma hanno tutti cause naturali facilmente spiegabili se si parte dalla conoscenza razionale e scientifica della natura.

L’uomo, finalmente liberato da paure e pregiudizi, diventa il protagonista e padrone del proprio destino.

Il tuono

Principio tonitru quatiuntur caerula caeli            

propterea quia concurrunt sublime volantes
aetheriae nubes contra pugnantibus ventis.

Per cominciare , i ceruli spazi del cielo sono scossi dal tuono perché aeree nuvole, volando in alto, si scontrano, quando i venti combattono l'un contro l'altro

 

Il fulmine
hunc tibi subtilem cum primis ignibus ignem              
constituit natura minutis
mobilibusque
corporibus, cui nil omnino obsistere possit.

Questo fuoco, vedi, più sottile che ogni altro fuoco sottile, la natura lo ha foggiato con corpi minuti e veloci, tale che nulla mai gli può resistere. De rerum natura, VI vv.219-227

 

La pioggia

Primum iam semina aquai                                                           
multa simul vincam consurgere nubibus
ipsis
omnibus ex rebus pariterque ita crescere utrumque
et nubis et aquam, quae cumque in nubibus extat,
 

Anzitutto dimostrerò come molti atomi di acqua si levino con le stesse nubi da tutte le cose e che le nuvole e l'acqua che si trovano in esse crescono insieme  De rerum natura, VI vv. 495-512

 

 

B) Virgilio 

Nelle "Georgiche", poema didascalico in 4 libri, che ha per soggetto i lavori della campagna, Virgilio ( 15 ottobre 70 a.C.- 21 settembre a.C.) giustifica la scelta di un argomento, così insolito per un’opera di poesia, con la finzione della propria incapacità di trattare temi scientifici e filosofici  (ritenuti, d’altra parte, centrali nella conoscenza della natura: Georgiche II vv.490-493 )  e con l’affermazione dell’utilità di presentare argomenti agresti legati all’esperienza quotidiana e ad una religiosità semplice e naturale.

Agli uomini ambiziosi, avidi, violenti (quelli che Seneca , nel De brevitate vitae- I sec. d. C., chiama “gli affaccendati”), Virgilio non contrappone il saggio, come Lucrezio, ma il contadino, che chiama fortunatus, sia nel significato di “felice” in quanto vive a contatto con la natura, sia inteso nel senso di colui che si affida alla fortuna, cioè alle forze misteriose che proteggono i raccolti e fanno fruttare i campi.

La celebrazione del lavoro, che non viene giudicato una condanna, ma il mezzo voluto da Giove stesso, attraverso cui l’uomo può evidenziare l’acutezza della sua mente, esprime un messaggio di fiducia orgogliosa nell’uomo e nelle sue capacità.

Georgiche Liber I

100-117  Il passo è stato scelto perchè esamina tutti i pericoli a cui sono soggette le coltivazioni dei campi e perché rappresenta l’ansia del contadino sempre attento alla cura e alla difesa dei prodotti.

·        Necessità di invocare la divinità perché nessuno può mai avere un raccolto così sicuro da potersene vantare (precarietà della natura).  

·        Ruolo fondamentale dell’acqua che permette il fiorire della vita sulla Terra.

·        Difficoltà a far combaciare le necessità delle piante con le condizioni atmosferiche.

 

155-159
· Necessità di un lavoro costante, faticoso e assiduo non solo per ottenere risultati, ma per sopravvivere.
· Le difficoltà sono presentate in un crescendo per significare il senso di responsabilità e l’impegno del contadino.

204-230
· Correlazione fra conoscenze di astronomia, eventi terreni e lavori nei  campi.
· Il tempo scandisce i periodi di semina e di raccolta.
· Difficoltà nell’agricoltura per la precarietà del tempo meteorologico(precipitazioni).
· Bisogno costante per la Terra di continue cure.

240-258
· Mutamenti del tempo e attenzione posta sui cicli stagionali paragonate all’alternarsi del giorno e    della notte (uso di metafore).
· Mutamenti del cielo per trarre presagi sui lavori agricoli.
· Attenzione posta al declinare degli astri in correlazione con i cicli
  stagionali

nosque ubi primus equis Oriens adflavit anhelis, illic, sera rubens accendit lumina Vesper. Hinc tempestates dubio praediscere caelo possumus, hinc messisque diem tempusque serendi, et quando infidum remis inpellere marmor

Di qui a cielo ancora incerto possiamo prevedere le stagioni, i giorni della messe e il tempo della semina se conviene prendere il mare infido e spingervi le navi abbattere il pino nei boschi.

 

322-337
· Effetti distruttivi delle piogge.
· Precipitazioni attribuite alle divinità e paura degli uomini e degli
  animali per tale furia.

350-393
A differenza del poema ellenistico “Phaenomena” di Arato ( III secolo a. C.), da cui
Virgilio trae ispirazione, i fatti meteorologici descritti acquistano colore ed evidenza e gli
animali sono creature quasi umane
.
L’ agricoltore ha i suoi compiti da svolgere: scegliere il terreno, arare, seminare, mietere,
trebbiare. Ogni opera va eseguita al momento opportuno. D’inverno il colono si riposa,
ma, poiché per le piogge d’autunno e per una primavera tempestosa si corre il rischio
di veder distrutto il proprio lavoro, è indispensabile conoscere i segni del bello e del
cattivo tempo, evidenti nella natura e nel comportamento degli animali.
Le previsioni si basano, non su rilevamenti di tipo scientifico, ma sull’ osservazione dei
comportamenti degli animali e su particolari segnali del cielo.
Tutti sono in grado di riconoscere tali segni: si tratta di un patrimonio di conoscenze
comune e facile da trasmettere e recepire. Il passo si chiude con una bellissima immagine
di fanciulle, intente al tranquillo lavoro della filatura, che, pur nel chiuso della loro
stanzetta, sanno riconoscere i mutamenti del tempo.

375

Numquam inprudentibus imber obfuit: aut illum surgentem vallibus imis aeriae fugere grues, aut bucula caelum suspiciens patulis captavit naribus auras, aut arguta lacus circumvolitavit hirundo et veterem in limo ranae cecinere querelam. Saepius et tectis penetralibus extulit ova

Mai la pioggia senza preannunzi, colse allo sprovvisto: o la fuggono al suo giungere, dal fondo delle valli,le aeree gru, o la giovenca guardando il cielo aspirò l’aria con le froghe dilatate, o la garrula rondine volò tutto intorno agli stagni, e le rane nel fango cantarono il loro antico lamento

Ne nocturna quidem carpentes pensa puellae nescivere hiemem, testa cum ardente viderent scintillare oleum et putris concrescere fungos.

Neppure le fanciulle che torcono le lane notturne Ignorarono la tempesta, vedendo nella lucerna accesa. Scintillare d’olio e sprigionare putride muffe.

 

C)  Caio Giulio Cesare  

I "Commentarii de bello gallico" sono otto libri scritti da Cesare durante la campagna militare in Gallia ed in Britannia negli anni 58-51 a.C. Si è analizzata l’opera in base a questa ipotesi interpretativa: individuare il peso che gli eventi meteorologici hanno nella conduzione di un’impresa bellica. In realtà, Cesare non organizza strategie e tattiche di guerra (accampamento, marce, attacchi) tenendo conto delle condizioni atmosferiche, né consulta esperti o indovini a tal proposito

LibroI,50
Commento: Cesare riporta una credenza dei Germani che non condivide. Infatti in tutto il
De Bello Gallico non c'è accenno a nessuna forma di previsione/predizione.

Apud Germanos eas consuetudo esset,ut matres familiae eorum sortibus vaticinationibusque de clararent,utrum proelium committi ex usu esset necne;eas ita dicere: non esse fas Germanos superare,si ante novam lunam proelium contendissent.

Presso i Germani era consuetudine che le madri di famiglia, consultando le sorti e i vaticini, dichiarassero se era vantaggioso combattere o no. In questo caso, il responso era stato il seguente: il destino è avverso alla vittoria dei Germani, se combatteranno prima della luna nuova.

LibroVII,8;24;32;35;55
Commento: Le condizioni atmosferiche proibitive non costituiscono un ostacolo
all'impresa di Cesare: ciò significa che i soldati erano abituati a qualsiasi disagio e che i
fenomeni meteorologici erano considerati in subordine rispetto alla razionalità, alla
volontà e al valore dell'uomo.

Etsi mons Cabenna qui Avernos ab Helviis discludit, durisimo tempore anni altisima nive iter impediebat, tamen discussa nive sex in altitudinem pedum atque ita viis patefactis summo militum labore ad fines Arvernorum pervenit.

Le Cevenne, monti che segnano il confine tra Arverni ed Elvi, ostacolavano il cammino, la stagione era la più inclemente, la neve molto alta; tuttavia (Cesare) fece spalare la neve per una profondità di sei piedi, si aprì un varco grazie all'enorme sforzo dei soldati e raggiunse i territori degli Arverni.

Tema 2.  La natura perfetta: modelli di vita

"Mito dell’ Età dell’ Oro" 

·         Esiodo Le opere e i giorni

·         Virgilio Ecloga IV

·         Georgiche II, v.490

·         Eneide VIII vv.310-368

·         Tibullo Corpus Tibullianum, I

·         Ovidio Metamorfosi, I vv.1-162

La prima testimonianza letteraria del mito dell’ "Età dell’oro", che forse era diffuso anche nel vicino Oriente, risale al poema didascalico "Le opere e i giorni" di Esiodo, autore greco del VII sec.a.C.

In esso si afferma che la Terra ha generato gli uomini spontaneamente, specialmente sul suolo dell’Attica, come i suoi frutti migliori. Questi uomini costruirono la stirpe appartenente all’"età dell’oro" e furono sudditi di Crono (Saturno per i Romani). Vivevano senza pena e senza fatica, nutrendosi di ghiande, di frutta selvatica e del miele che stillava dalle piante e bevendo il latte delle pecore e delle capre. Fra svaghi e danze, in serena allegria, non invecchiavano mai e la morte per loro non era più temibile del sonno.

Esiodo indica le stirpi umane col nome di 4 metalli: ad una stirpe "aurea" succede una "argentea", poi una "bronzea", poi un’altra "bronzea", ma più nobile e generosa, la "stirpe degli eroi", fino al presente occupato da una stirpe del "ferro".Benché Esiodo alla scala di valore discendente dei metalli non facesse corrispondere una valutazione decrescente della qualità degli uomini, che progressivamente hanno popolato il mondo, tuttavia si è consolidata nel tempo la convinzione che l’età dell’oro rappresentasse la perfezione.

Il quadro complessivo, rappresentativo della vita beata, era ottenuto attraverso il rovesciamento di quanto avveniva nel presente: non occorreva lavorare perché la natura offriva tutto spontaneamente e abbondantemente, non c’erano guerre, non avidità, non proprietà, non povertà, non perturbazioni climatiche ed atmosferiche, ma un’eterna primavera vivificata dagli Zefiri, tiepidi, dolci e leggeri venti di ponente.

Il Paradiso terrestre

Dante Alighieri  Divina Commedia – Purgatorio – Canto 28 

La Bibbia sia per rappresentare la creazione dell’ uomo che per spiegare l’ origine del Male, ha immaginato un luogo di delizie in cui Dio ha collocato Adamo ed Eva. L’ assenza di ogni turbamento atmosferico, l’ assenza della fatica e della malattia e di ogni dolore corrispondono all’ assenza di peccato, alla purezza. Per questo motivo Dante colloca sulla sommità della montagna del Purgatorio il Paradiso terrestre, concepito, stando all’autorità delle Sacre Scritture, come la visibile realizzazione, la vera immagine della perfetta felicità terrena.

Secondo Dante la Divina Provvidenza ha fissato per l’umanità due mete: l’una terrena, l’altra celeste, l’una per questa vita, l’altra per la vita avvenire (De Monarchia). Il Paradiso terrestre simboleggia il fine terreno dell’uomo, mentre il suo punto finale è il Paradiso celeste. L’Eden,  creato da Dio come luogo di delizie destinato all’uomo, si contrappone alla "selva selvaggia" del I canto dell’Inferno e rappresenta la felicità terrena a cui l’uomo può giungere con la ragione e accettando la guida dell’imperatore, che lo riscatta dal disordine e dall’ anarchia

 28.  1       Vago già di cercar dentro e dintorno
 28.  2    la divina foresta spessa e viva,
 28.  3    ch'a li occhi temperava il novo giorno,

 
 28.  4       sanza più aspettar, lasciai la riva,
 28.  5    prendendo la campagna lento lento
 28.  6    su per lo suol che d'ogne parte auliva.

 
 28.  7       Un'aura dolce, sanza mutamento

 28.  8    avere in sé, mi feria per la fronte
 28.  9    non di più colpo che soave vento;

 
 28. 10       per cui le fronde, tremolando, pronte
 28. 11    tutte quante piegavano a la parte
 28. 12    u' la prim'ombra gitta il santo monte;

 

Tema 3   La natura riflesso dei sentimenti dell'uomo 

·        Orazio Odi

·        Tibullo Elegie

·        Poeti provenzali

·        Petrarca Canzoniere

La poesia è "espressione libera e schietta di un sentimento vivo" (Leopardi); è l'espressione di un affetto vivo e sentito, di un'emozione. Sul tema scelto il poeta sviluppa, per associazioni analogiche, numerose variazioni, che dilatano, giustificano e rafforzano il tema centrale e nello stesso tempo lo abbelliscono di immagini, suoni e colori. Nell'esprimere i suoi sentimenti il poeta, spesso, si richiama alla natura che:

·        fa da sfondo ideale ai suoi stati d'animo;

·        costituisce la fonte a cui attingere le similitudini per significare la bellezza della donna, l'intensità dell'amore,…;

·        assurge a simbolo della condizione metafisica dell'uomo;

·        rappresenta l'aspirazione ad un'esistenza ideale maturata in determinati contesti storici.

Quinto Orazio Flacco (Venosa 65 a.C. - Roma 8 a.C.)

Nelle Odi (4 libri 18-23 a.C.) la natura costituisce l'ambiente ideale di vita serena, dove l'uomo trova la tranquillità interiore, dove può vivere appartato nella meditazione e nello studio, dove vive la purezza dei sentimenti, quali l'amicizia e la sincerità, garantita dal vino puro.

La raffigurazione della natura è sempre intensamente lirica, mai idilliaca, mai nostalgica di un passato irrecuperabile: la campagna rappresenta il luogo da cui sono assenti sia la ricchezza che l'angoscia, dove regnano la bellezza e la quiete che sono negate alla vita caotica della città.

Odi I, 4

Le parole sottolineate – sorgere, zefiro, primavera, acuto, gelo, brina, luna, mirto verde, fiori, morte, notte – sono state individuate come le parole – chiave di quest’Ode. Si evidenzia la contrapposizione fra la natura eterna e la vita dell’uomo peritura. L’arrivo della primavera rappresenta simbolicamente l’inizio di un nuovo ciclo e il risorgere della natura. Inoltre si delineano le figure di Sestio, "interlocutore del poeta", che rappresenta l’umanità che spesso dimentica la precarietà della vita sulla Terra; e la figura di Orazio che, invece, è il saggio , consapevole della brevità dell'esistenza umana.

Solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni

trahuntque siccas machinae carinas,

ac neque iam stabulis gaudet pecus aut arator igni

nec prata canis albicant pruinis.

Iam Cytherea choros ducit Venus imminente luna

iunctaeque Nymphis Gratiae decentes

Alterno terram quatiunt pede, dum gravis Cyclopum

Volcanus ardens visit officinas.

Nunc decet aut viridi nitidum caput impedire myrto

aut flore, terrae quem ferunt solutae;

nunc et in umbrosis Fauno decet immolare lucis,

seu poscat agna sive malit haedo.

Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas

regumque turris. O beate Sesti,

vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam.

Iam te premet nox fabulaeque Manes

et domus exilis Plutonia: quo simul mearis,

nec regna vini sortiere talis,

nec tenerum Lycidan mirabere, quo calet iuventus

nunc omnis et mox virgines tepebunt.

 

Al sorgere dolce di zefiro e della primavera

l’acuto gelo si dilegua

e gli argini dal secco

trascinano le navi al mare:

allora il gregge scorda il piacere degli ovili,

l’uomo quello del proprio focolare

e i campi più non s’imbiancano

pallidi di brina.

Sotto il chiarore della luna

ora conduce Venere le danze

e mano nella mano

le Ninfe e le Grazie leggiadre

col piede battono a

tempo la terra,

mentre nelle officine inquiete dei Ciclopi

si aggira tra le fiamme Vulcano.

Ora devi cingere il campo profumato

di un mirto verde, dei fiori

che sbocciano dalla terra dischiusa

e in un bosco ombroso

immolare a Fauno un’agnella

O un capretto se lo preferisce.

Con piede uguale la pallida morte

batte alla capanne dei poveri

e alle torri dei prìncipi.

Sestio, uomo felice,

lo scorrere della vita

ci vieta di cullare una lunga speranza.

Già la notte ti avvince

  

 Ode I, 11

 Nell'ode la stagione invernale viene sintetizzata in una immagine stilizzata emblematica della sofferenza della natura: le onde che si infrangono contro le scogliere. Tale sofferenza, è percepita di riflesso anche dall'uomo, il quale medita sul senso dell'esistenza che, lieve e precaria, può, soltanto, essere pienamente vissuta nella valorizzazione del presente.

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi

finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios

temptaris numeros. Ut melius quicquid erit pati,

seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,

quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare

Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi

Spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida

aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.

 

Non chiedere anche tu agli dei

il mio e il tuo destino, Leucònoe:

non è lecito saperlo,

come indagare un senso

tra gli astri di Caldea.

Credimi, è meglio rassegnarsi,

se Giove ci concede molti inverni

o l'ultimo sia questo

che ora infrange le onde del Tirreno

contro l'argine delle scogliere.

Pensaci: bevi un po' di vino

e per il breve arco della vita

tronca ogni lunga speranza.

Mentre parliamo, con astio

il tempo se n'è già fuggito.

goditi il presente

e non credere al futuro.

Tibullo (55/50- 19/18 a.C.)

Nelle Elegie (3 libri), il cui tema dominante è l'amore, la natura, idealizzata, si configura come modello simbolico, più che come panorama reale, in quanto rappresenta l'asilo dell'amore corrisposto, l'oblio al cuore lacerato dai tormenti enormi , il richiamo di un'età di innocenza universale e di semplicità primitiva.

In particolare rappresenta il contrasto fra ciò che la vita è realmente e ciò che il poeta sogna.

Corpus Tibullianum, Liber 1, vv.45-50

 

Quam iuvat inmites ventos audire cubantem

Et dominam tenero continuisse sinu

Aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster,

securum somnos imbre iuvante sequi.

Hoc mihi contingat: sit dives iure, furorem

Qui maris et tristes ferre potest pluvias.

Com’ è dolce udire dal letto l’infuriare dei venti

E stringere teneramente fra le braccia la donna amata,

oppure, se l’ invernale Austro rovescia gelide piogge,

abbandonarsi a placidi sonni conciliati dallo scrosciare dell’ acqua!

Questo mi tocchi in sorte: sia a buon diritto dovizioso

Chi riesce a sopportare le collere del mare e le tristi piogge

La tempestosità dell’ambiente esterno contrasta con la serenità di quello interno. La pioggia, che in un primo momento viene descritta nell’aspetto negativo dell’atmosfera gelida invernale, ne assume poi uno positivo, addirittura piacevole.

 I poeti provenzali (XII-XIII secolo d.C.)

 Nelle corti del sud della Francia (Provenza, Rossiglione, Poitou, Limosino), dove si era sviluppata

una società aristocratica elegante e raffinata, che aveva codificato valori e costumi di vita, nel corso del XII secolo l’ideale cortese di amore trovò massima espressione nella forma della poesia lirica.

Le poesie lette evidenziano l'interesse dei poeti (Bertran De Born,Peire Vidal,Guilhem De Peitieu e Arnaut De Maruel )per i fenomeni atmosferici, le stagioni, la natura. Diverse sono le sensazioni provate: si può passare da una sofferenza accentuata dall’inizio della stagione propizia per gli amori ad una "piacevole ansia" o ancora ad una particolare felicità.. 

Guglielmo D’Aquitania  22/10/1071-10/02/1126)

Con la dolce stagione rinnovata

I boschi riverdiscono e gli uccelli

Nella sua lingua va cantando

Con l’armonia del canto novello:

è giusto allor che ognuno si procuri

quello ha brama più grande.

 

Dal luogo in cui è tutto il mio piacere

Missiva o messaggero non mi viene,

sicché non dorme né ride il mio cuore,

e io non oso spingermi più avanti,

finche non sappia che la conclusione

sarà ben quale vado domandando.

 

Si porta il nostro amore alla maniera

In cui si porta il fior di bianco spino,

che avvinto tutta la notte

tremando resta nella pioggia e al gelo

fino al domani quando il sol s’effonde

sul ramoscello tra il verde fogliame.

 

Io mi ricordo ancora d un mattino,

quando mettemmo fine al nostro scontro

e lei mi dette un dono così grande:

l’amore pieno insieme con l’anello.

 

La scena è ambientata in un sereno paesaggio primaverile, contraddistinto dalla rinascita della natura e dal canto gioioso degli uccelli.

Benché la stagione favorisca la nascita e lo sviluppo dell’amore, l’io lirico non riesce a provare gioia dalla natura perché non riceve notizie dalla sua amata.

La primavera è paragonata alla salvezza di un mattino dopo una notte buia e fredda ; infatti proprio in un mattino primaverile la sua amata mise fine a tutte le loro pene concedendogli il suo

"amore pieno insieme all’anello".Ora si trova in una gelida notte ad aspettare come un biancospino il sole del mattino che gli porterà notizie della sua amata.

Felice è la similitudine dell’amore con il "ramo del biancospino", tremante al gelo della notte nella sua fragilità come il poeta è tremante davanti alla donna.

 

Francesco Petrarca (Arezzo 20 luglio 1304- 19 luglio 1374 Arquà )

Nel Canzoniere (366 componimenti) il paesaggio non si delinea nell'urgenza sensibile delle sue forme, dei suoi colori, ma risulta da elementi estremi, stilizzati: erbe, fiori , fronde, monti, selve, acque limpide, cieli sereni, tutti elementi che compongono l'immagine del locus amoenus.

Per il Petrarca l'unica realtà che conta è quella interiore, per cui la sua poesia non è racconto, né rapporto con il mondo della storia contemporanea, ma lucida analisi della coscienza, esame dei suoi sentimenti oscillanti e contradditori.

Lo spazio esterno subisce un processo di interiorizzazione e diventa paesaggio, stato d'animo, condizione psicologica: pertanto ambiente naturale e stato d'animo corrispondono fra loro. È una spazio simbolico che rimanda all'io del poeta, al dissidio interiore fra aspirazione all'assoluto e l'amore per le cose terrene.

154

Le stelle, il cielo et gli elementi a prova

tutte lor arti et ogni extrema cura

poser nel vivo lume, in cui Natura

si specchia, e 'l Sol ch'altrove par non trova.

L'opra è altera, leggiadra et nova

che mortal guardo in lei non s'assecura:

tanta negli occhi bei for di misura

par ch'Amore et dolcezza et gratia piova.

L'aere percosso da' lor dolci rai

s'infiamma d'onestate, et tal diventa,

che 'l dir nostro e 'l penser vince d'assai

66

 

L'aere gravato, et l'importuna nebbia

compressa intorno da rabbiosi vènti

tosto conven che si converta in pioggia;

et già son quasi di cristallo i fiumi,

e 'n vece de l'erbetta per le valli

non se ved'altro che pruine et ghiaccio.

Et io nel cor via piú freddo che ghiaccio

ò di gravi pensier' tal una nebbia,

qual si leva talor di queste valli,

serrate incontra agli amorosi vènti,

et circundate di stagnanti fiumi,

quando cade dal ciel piú lenta pioggia.

In picciol tempo passa ogni gran pioggia,

e 'l caldo fa sparir le nevi e 'l ghiaccio,

di che vanno superbi in vista i fiumi;

né mai nascose il ciel folta nebbia

che sopragiunta dal furor d'i vènti

non fugisse dai poggi et da le valli.

 

BIBLIOGRAFIA

G. Ciavorella, MANUALE DI LINGUA - Il Capitello

C. Annaratore, MAIORES - Bruno Mondadori

F. Della Corte, TIBULLO ELEGIE - Milano

"TUTTE LE OPERE" a cura di E. CETRANGOLO - Firenze, Sansoni

E. Pasoli, STORIA DELLA LETTERATURA LATINA - Laterza

Dante Alighieri, DIVINA COMMEDIA a cura di Tommaso Di Salvo - Zanichelli

U. Dotti, F. PETRARCA - Utet

"I TROVATORI" - Bollati Boringhieri, Bologna

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